Filippo Mastroianni
martedì 22 gennaio 2013
0
Non avendo ancora avuto il tempo di correre al cinema per vedere Django Unchained, l'ultimo lavoro di Quentin Tarantino, mi è venuta voglia di parlare del film che ne ha ispirato il titolo: Django, di Sergio Corbucci, che ho avuto il piacere di vedere un buon numero di volte.
Gli spaghetti western sono sempre stati un genere che mi ha interessato e appassionato, come del resto è accaduto a Tarantino stesso. Ne ho visti molti, di svariati autori. Sono i western all'italiana, totalmente diversi dai loro cugini americani. Niente eroi buoni alla John Wayne, niente epica del west americano, eliminazione totale degli stereotipi principali perpetrati nei western di stampo statunitense, che erano, come logico, una sorta di elogio alla loro storia. Romantici, con personaggi pieni di buone intenzioni, dove la morale fa da padrone.
Nei western all'italiana tutto questo non esiste. Non esistono in primo luogo dei veri e propri eroi. I personaggi principali sono anzi, spesso, dei puri antieroi o comunque la distinzione tra buoni e cattivi non è per nulla marcata come nei western classici. Tutti i personaggi sono mossi da un interesse personale, spesso legato al denaro, il motivo più futile, meno moralmente accettabile. Sono furbi, cinici, spesso sporchi e trasandati, doppiogiochisti, privi di scrupoli e di ideali, messi in moto solo dal loro personale interesse, dotati di una particolare, cruda ironia, altra caratteristica degli spaghetti western. Le ambientazioni sono altrettanto ciniche ed è la polvere a fare da padrone nel selvaggio West, ricreato dai registi italiani in luoghi del Mediterraneo, specialmente Spagna e Italia, a causa del basso budget che la maggior parte delle volte questi film avevano a disposizione. Un'altra particolarità che mi è sempre piaciuta di questo genere sono i nomi dei personaggi, come Trinità, Alleluja, Django, Sentenza, appellativi impossibili da dimenticare. I titoli non sono da meno, singolari, a volte delle vere e proprie frasi come La morte non conta i dollari, Le colt cantarono la morte e fu tempo di massacro, E divenne il più spietato bandito del sud, e molti altri ancora.
Gli spaghetti western, per concludere questo passaggio e venire finalmente al film, non sono solo Sergio Leone. Sono Sergio Corbucci (il regista appunto di Django), Duccio Tessari, Sergio Sollima, Enzo Castellari, Enzo Barboni (meglio noto come E.B.Clucher, precursore del filone di uno spaghetti western più leggero e ironico, di cui Lo chiamavano Trinità è un perfetto esempio) e ancora molti altri.
Veniamo, finalmente, al film. Django è un'opera di Sergio Corbucci, uno dei registi più rappresentativi del genere, realizzata nel 1966. La pellicola è da annoverarsi tra le gemme più lucenti degli spaghetti western, in special modo per il personaggio a cui Corbucci ha dato vita, Django, nome che sarà ripreso poi da numerosi altri film. Il ruolo del protagonista è interpretato magistralmente da Franco Nero, di cui Corbucci andava fierissimo, arrivando anche ad affermare "Ford aveva John Wayne, Leone Clint Eastwood, io ho Franco Nero", affiancandolo a dei veri mostri sacri. L'attore italiano ha ottenuto tra l'altro un cameo nell'attuale film di Tarantino.
Il film si apre alla grandissima e ci presenta subito il nostro protagonista in modo enigmatico e affascinante. Il brano di apertura, una vera e propria sigla iniziale scritta da luis Bacalov, al contrario di altre pellicole e soprattutto della colonna sonora presente nella trilogia del dollaro, ha poco di epico e maestoso, ma è intrisa invece di una velata malinconia. Django si muove nel fango, che in questo film sostituisce la polvere nello sporcare i personaggi, a piedi, trascinando una bara, che da un tono di mistero al protagonista. Il contenuto della bara, chi o cosa vi sia riposto dentro, sarà il liet motiv di tutta la prima parte del film, la domanda principale che si porrà lo spettatore nonchè probabilmente la trovata più geniale di Corbucci.
La vicenda si svolge quasi completamente all'interno di un villaggio dimenticato da Dio, tra sentieri fangosi, in cui gli unici abitanti rimasti sono il barista Nataniele e le prostitute del locale. Una guerra in atto tra gli uomini del maggiore Jackson, un personaggio crudele e razzista, e un gruppo di messicani, infatti, ha allontanato tutta la popolazione che precedentemente animava il paese. I personaggi sono umani, non stereotipati. La violenza non manca. Sono frequenti le sparatorie, intervallate da alcune scene molto crude, quasi trash, come il taglio dell'orecchio di un sudista (vi ricorda qualcosa? Vedi Le iene di, guarda caso, Quentin Tarantino).
Il protagonista, come tipico dei personaggi del filone, è cinico al punto giusto, si muove per interesse personale e fa di tutto per raggiungerlo. Vendetta e denaro. Sono sempre queste le molle che fanno scattare l'azione nei western all'italiana. Django non è da meno. Django si muove per l'oro, quando convince il Generale Hugo e la sua banda di messicani ad attaccare il forte che lo custodisce. Django si muove per desiderio di vendetta, per riscattare la morte della moglie, uccisa mentre lui era a combattere la guerra civile con la divisa nordista. Ed è proprio sulla tomba della moglie che avverrà il duello finale, una scena a livello di tensione emotiva perfettamente riuscita.
Un western violento, con alcune scene dal taglio quasi gotico, non totalmente ingabbiato nelle regole del genere. Un personaggio cult, ben interpretato da Franco Nero. La regia molto pratica, meno alla ricerca della finezza stilistica che ritroviamo, ad esempio, nei film di Leone ma anche in altri lavori dello stesso Corbucci come Il grande silenzio. Consapevole che gli spaghetti western non sono unanimamente apprezzati (nemmeno quelli di Sergio Leone, elogiati dalla critica ma difficili da digerire per buona parte dei possibili spettatori), con la scusa dell'uscita dell'opera quasi omonima di Tarantino, Django è un film da riscoprire, che potrebbe farvi conoscere un genere tutto italiano non propriamente alla moda.
Nessun commento