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» » » » » » » » Capire L'Isis: il wahabismo e l'ambiguità saudita

Filippo Mastroianni domenica 31 gennaio 2016 1


Comprendere lo Stato Islamico significa cercare di capire l'ideologia che lo ha partorito e l'influenza che il wahabismo ancora esercita in Arabia Saudita.


La Mecca, città sacra dell'Arabia Saudita occidentale. 
L’Occidente si è quasi stupito dell’improvvisa entrata in scena di Dāʿish. Scoperto, da questo lato del mondo, poco più di un paio di anni fa. Balzato agli onori della cronaca per la sua brutalità e la straordinaria capacità di attrarre la gioventù sunnita (e non solo), l’Isis è diventato una minaccia sempre più concreta. Per il mondo occidentale, ma anche per quell’Arabia Saudita la cui posizione rimane fortemente ambigua. Sintomo, del resto, di una reale spaccatura nel paese.

Da una parte, L’Isis si contrappone all’Iran sciita e sta cercando di creare un nuovo stato sunnita nell’area, in una terra che molti arabi ritengono gli appartenga. Molti si sentono invece inquietati dalla rigida dottrina salafita di Dāʿish, iniziando anche a mettere in discussione la direzione politica intrapresa dal governo saudita.

Salafismo e Whaabismo

Il salafismo delle origini era un movimento profondamente religioso, con l’obbiettivo di un ritorno ad un Islam puro. Il riferimento erano i primi anni dopo la morte del Profeta, perché si riteneva che l’andare dei secoli e la creazione di sovrastrutture influenzate dal mondo occidentale, ne avessero corrotto le caratteristiche originarie.

Il salafismo ha origine con lo studioso della Sunna (testo sacro dell’Islam, che insieme al Corano costituisce la Shari'a) Ibn Taymiyya (1263–1328), discepolo della scuola hanbalista. Anni dopo, anche Mohammed Ibn Abdel Wahab (1703-1792), aderirà alla stessa dottrina hanbalista, per ritrovare un Islam puro. Wahab era profondamente convinto che il periodo trascorso a Medina dal Profeta Maometto fosse da considerarsi “il migliore del tempi”, quello che incarnava al meglio la società musulmana e che avrebbe dovuto essere esempio di emulazione per ogni buon musulmano. Con lui si svilupperà quel movimento conservatore conosciuto col nome di wahabismo, che tanta influenza avrà nel mondo saudita e sulle frange estreme del terrorismo islamico.

Un pizzico di storia 

Abd al Wahab nasce d al-ʿUyayna, un villaggio del Najd centrale. Qui iniziò alla predicazione delle sue idee, che contenevano, tra le ricette, lapidazioni, pestaggi punitivi, mutilazioni di ladri. L’emiro di Uyayna, temendo una sommossa, lo cacciò. Per diversi anni Wahab vagò per i territori ottomani, convincendosi sempre di più che l’Impero avesse portato dissolutezza e corruzione. 

Nel 1744 Wahab arriva a al-Dirʿiyya, nella provincia del Nejd, entrando in contatto con l’Emiro Muhammad Ibn Saud, lieto di accogliere un predicatore da un potentato rivale. I due stringono rapporti sempre più stretti, giurandosi fedeltà reciproca, col comune intento di rinnovare quei costumi che entrambi giudicavano troppo lontani dall’Islam puro delle origini. Ibn Saud era perfettamente consapevole che gli insegnamenti di Wahab contenevano tutto ciò che gli sarebbe servito a raggiungere i suoi scopi. La jihad permanente, con la possibilità di saccheggiare le altre città musulmane, una severa disciplina e la possibilità di affermare la propria influenza sulle tribù vicine, così da unificare la penisola. Insomma, la strada verso il potere, sotto il vessillo della jihad. Trono e Altare uniti nel wahabismo saudita. Con il secondo al servizio del primo, ma non viceversa. 

I massacri cominciarono, prendendo di mira in primis gli eretici sciiti, da Karbala a Taif. Ibn Saud documentò con orgoglio il massacro di Karbala, scrivendo: "Abbiamo preso Karbala, e fatto un massacro, e ridotto la sua popolazione (in schiavitù), per cui sia resa lode ad Allah, Dio dei Mondi, e non chiederemo scusa per questo, e diremo: Agli infedeli: lo stesso trattamento”. Infine attaccarono la Mecca, distruggendo anche la tomba del profeta e dei califfi, coerentemente alla visione wahabita, contraria all’ostentazione di tombe così appariscenti. Secoli di architettura islamica, attorno alla Grande Moschea, furono distrutti in poco tempo. Entro il 1790 controllavano gran parte della penisola araba, razziando ripetutamente Medina, la Siria e l'Iraq. 

Nel novembre 1803 Ibn Saud muore assassinato. Gli succede il figlio Saud bin Abd al Aziz, che porta avanti il progetto di conquista dell’intera Arabia. La reazione ottomana non poteva però farsi attendere oltre. Nel 1814 Saud bin Abd al Aziz morì di febbre. L’erede Abdullah bin Saud, venne catturato dagli ottomani e condannato a morte. I fedeli dei Saud furono ricacciati nel deserto e la loro capitale, Deraiya, venne distrutta. Il primo stato saudita non esisteva più e i pochi wahabiti sopravvissuti rimasero nel deserto per gran parte del XIX secolo. 

La rinascita avvenne anche grazie al mondo occidentale. L’agente britannico Philby era convinto che fosse nell’interesse della Corona sostenerli militarmente perché avrebbero accettato un rapporto di vassallaggio. Philby fu funzionario del monarca locale Ibn-Saud, di cui fu appunto anche un sostenitore durante la rivolta araba. 

Fra il 1914 e il 1926 gli Ikhwan riuscirono ancora una volta a occupare la Mecca, Medina e Jeddah. Gli Ikhwan erano una milizia religiosa islamica, che costituì la parte preponderante delle forze armate di Ibn Saʿūd. La fratellanza, col passare del tempo, divenne però incontrollabile per Abd-al Aziz. Gli Ikhwan si rivoltarono, provocando un incidente internazionale distruggendo una forza irachena che aveva violato la la zona neutrale iracheno-arabica istituita dalla Gran Bretagna e da Ibn Saʿūd tra Iraq e Arabia. Anche con l’aiuto della Gran Bretagna, gli Ikhwan vennero sconfitti nella Battaglia di Sabilla, dove quasi tutti i loro capi furono uccisi, e schiacciati. Parte di essi venne poi reintegrata nella forze regolari nel 1930. 

Nel 1924 Abd-al Aziz prese il potere in Arabia. Il nuovo stato adottò il wahabismo come dottrina ufficiale e trasse la sua legittimità dal possesso di alcuni fra i più grandi luoghi santi dell’Islam. Ibn Saud dovette inoltre assicurare che questo controllo sarebbe stato provvisorio, oltre a dover garantire il rispetto della stragrande maggioranza musulmana non wahabita. Ma la sua influenza non sarebbe stata così importante se, oltre a la Mecca e Medina, il suo territorio non avesse custodito anche la grande ricchezza nera del petrolio. La Gran Bretagna e Gli Usa erano ancora orientati a sostenere lo sceriffo Husayn come legittimo sovrano dell’Arabia. Il wahabismo arabo fu così costretto a mutare, fino a trasformarsi in un movimento di conservazione, sociale, politica, teologica e religiosa, per giustificare l'istituzione che sosteneva la lealtà alla famiglia reale saudita. Oltre al potere assoluto del Re. 

La monarchia saudita e il wahabismo 

Abbiamo parlato all’inizio della spaccatura del paese e dell’ambiguità della politica saudita. La Monarchia si è sempre legittimata proponendo un regime di tipo tradizionale, teocratico e fondamentalista, in cui l’influenza del wahabismo è molto forte. Tuttavia in politica estera la Famiglia Reale ha mantenuto una posizione filo-occidentale. Per questo viene tacciata di un rigorismo morale farisaico interno e di una doppiezza in politica estera. 

L’obbiettivo dei sauditi era quello di wahabizzare l’Islam, riunendolo in un unico credo. Gli occidentali, catturati dalle richezze petrolifere, diedero per assodato che il Regno si stesse piegando agli imperativi della modernità occidentale. 

L’influenza del Wahabismo continua però ad essere molto forte su tutti i movimenti militanti contemporanei arabi e islamici. Movimenti il cui obbiettivo è disegnare nuovi equilibri geo-strategici planetari in funzione dell’eccellenza del modello islamico nel Medio Oriente. Con l’aiuto degli Usa. Il pensiero wahabita riesce dunque ad affrontare positivamente il problema del rapporto fra modernità occidentale e Islam. Come detto parlando dell’Arabia Saudita, appunto, rifiuto puramente teorico in casa propria, ma cooperazione pratica e reale in politica estera. 

L’Isis e il wahabismo 

La fondazione dello Stato Islamico da parte dell’Isis fa riferimento alla storia che abbiamo raccontato. Lo spirito del wahabismo non morì schiacciato dagli ottomani, ma ritornò al crollo dell’Impero, dopo la Prima Guerra Mondiale. 

L’Isis è da un certo punto di vista profondamente wahabita. Eppure è ultraradicale in modo molto diverso, rappresentando una deviazione del wahabismo contemporaneo. Può essere definito come un movimento post-Medina. Guarda come modelli ai primi due califfi, negando l’autorità saudita. L’Isis nega quindi i tre capisaldi istituzionalizzati dalla dottrina di Muhammad ibn 'Abd al-Wahhab, che recitava "Un Sovrano, Un'Autorità, Una Moschea". Il Re saudita, l'autorità assoluta del Wahhabismo ufficiale, e il suo controllo della "parola". Questa negazione rende l’Isis, seppur conforme al wahabismo, una minaccia anche per la stessa Arabia Saudita.

Il campo petrolifero di Shaybah, uno dei più importanti siti di produzione di greggio dell'Arabia Saudita.


L’Arabia Saudita e l’errore occidentale

Il messaggio Ikhwan gode ancora oggi di molto sostegno e anche lo stesso Osama Bin Laden può essere visto come un rappresentante di questo approccio, che ha ancora una sua influenza su molti meccanismi del sistema. Da qui si può ricondurre il dualismo che osserviamo nell’atteggiamento saudita nei confronti dell’Isis. L’indebolimento del Re viene da molti visto semplicemente come un ritorno al progetto originario wahabita-saudita. Ed è proprio conoscendo questa storia che l’Occidente non dovrebbe stupirsi. Ecco l’errore più grande. Illudersi, o volersi illudere, distratti dalle ricchezze petrolifere, che la dottrina wahabita potesse dare vita a moderati.

L’Arabia Saudita, seppur piegata dalla modernità, conserva forti i legami con la visione wahabita delle origini. Eppure continua ad essere il principale referente occidentale in Medio Oriente. Wahabismo e Riyadh non possono essere scisse.

Laila Lalami, scrittrice marocchina, in un articolo pubblicato su The Nation scrive:


Dobbiamo chiedere conto ai re sauditi Salman, Abd Allah e Fadh che, finanziando la dottrina wahabita, hanno permesso all’estremismo islamico di diffondersi.

Quando ero bambina, in Marocco, nessun religioso mi ha mai detto cosa fare o leggere, in cosa credere e cosa indossare. E se lo facevano, ero libera di non ascoltarli. La fede andava oltre le sue manifestazioni esteriori. Le cose cambiarono negli anni ottanta. Eravamo in piena guerra fredda e i despoti arabi intravidero un’opportunità: potevano restare al potere reprimendo i dissidenti, soprattutto laici di sinistra, e incoraggiando la destra religiosa, con il sostegno tacito o esplicito degli Stati Uniti e di altri alleati occidentali. Nel vuoto creato dalla decimazione della sinistra laica nel mondo arabo, si fecero avanti i wahabiti, dotati di risorse finanziarie quasi infinite. Le idee wahabite si diffusero in tutta la regione, non perché avevano dei meriti (non li hanno), ma solo perché erano ben finanziate. Non possiamo sconfiggere il gruppo Stato Islamico senza distruggere la teologia wahabita che lo ha partorito. E per farlo servirebbe un impegno e degli investimenti altrettanto sostanziosi per difendere le idee progressiste.

Mentre afferma di voler combattere lo Stato Islamico, l’Occidente rimane però ancora troppo vicino all’Arabia Saudita. Eppure, lasciando perdere i possibili finanziamenti all’Isis, ci sono diversi aspetti che andrebbero sottolineati. Il governo di Riyadh nel 2015 ha decapitato più persone di quante ne abbia decapitate lo Stato Islamico, ha perseguitato sciiti e atei e distrutto siti archeologici di grande valore culturale e religioso intorno alla Mecca e a Medina. L’arabia Saudita sta inoltre bombardando lo Yemen da circa nove mesi. Scartarsi dalla scomoda vicinanza alla controversa Arabia Saudita sarebbe un primo passo verso una soluzione efficace del problema. Perché “non possiamo sconfiggere il gruppo Stato Islamico senza distruggere la teologia wahabita che lo ha partorito”

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